Al danno biologico (anche se grave) non consegue automaticamente un danno da lucro cessante

Al danno biologico (anche se grave) non consegue automaticamente un danno da lucro cessante
10 Settembre 2018: Al danno biologico (anche se grave) non consegue automaticamente un danno da lucro cessante 10 Settembre 2018

Con la sentenza n. 16894/2018 la Cassazione civile si è (finalmente) espressa in modo inequivocabile in tema di danno alla capacità lavorativa specifica (ovvero da lucro cessante), affermando che non si tratta di una conseguenza “automatica” del danno biologico, anche nei casi in cui questo sia molto grave (si trattava di un’invalidità del 90%, con la totale perdita della capacità lavorativa).

Il danneggiato ha infatti l’onere di provarne i presupposti: da un lato quello di aver esercitato un’attività lavorativa e di averne ritratto un determinato reddito, dall’altro aver perduto (in tutto o in parte quello stesso reddito) a causa dell’invalidità riportata, senza che tale perdita sia stata compensata da eventuali “vantaggi” percepiti in conseguenza di quella stessa invalidità, quali una pensione e/o un’indennità di accompagnamento.

In pratica, anche in questo caso, grava sul danneggiato l’onere di provare il danno per il quale intende essere risarcito.

 Infatti, secondo la Corte, “tra lesione dell'integrità psico-fisica (anche di non lieve entità) e diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo, ragion per cui l'accertamento di postumi permanenti, incidenti sulla capacità lavorativa specifica, non comporta ipso facto l'obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale per riduzione della capacità di guadagno”.

E’, dunque, “onere del danneggiato - anche quando la ricorrenza del pregiudizio, sotto il profilo dell'an, risulti altamente probabile per l'elevata percentuale di invalidità permanente - supportare la istanza risarcitoria con l'allegazione e la prova (anche di natura presuntiva) del pregresso svolgimento di un'attività produttiva di reddito e della contrazione (o del mancato conseguimento) di quest'ultimo in dipendenza del fatto dannoso, non potendo, in mancanza, farsi ricorso alla valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ., riguardante solo la liquidazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare (sull'argomento, in questo senso, cfr., ex plurimis, Cass. 10/07/2015, n. 14517; Cass. 12/02/2015, n. 2758; Cass. 04/11/2014, n. 23468; Cass. 03/07/2014, n. 15238; Cass. 12/02/2013, n. 3290)”.

E’, inoltre, “ostativa alla liquidazione del danno per lucro cessante da perdita di guadagno … la mancata indicazione degli importi percepiti” dal danneggiato “a titolo di pensione di inabilità e di indennità di accompagnamento”, perché “nella stima” dell’anzidetto danno “occorre tenere conto dei vantaggi pervenuti o che certamente perverranno (ancorchè da soggetti terzi) al danneggiato”, qualora questi, come nel caso esaminato, siano dirette a “compensare… il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall'illecito, somministrate cioè in funzione di copertura del danno occorso alla vittima”.

In altre parole, la Corte afferma apertis verbis che la percezione delle anzidette indennità pensionistiche o assistenziali dà luogo ad una “compensatio lucri cum damno, qualificabile, dal punto di vista processuale, come una mera difesa, vale a dire non un'adduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato, bensì una circostanza, rilevabile anche di ufficio dal giudice, in ordine all'esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato”.

Se il danneggiato, che pur si debba presumere abbia percepito tali indennità, considerata l’entità delle lesioni subite, non ne abbia provato l’ammontare, tale omissione riverbera in suo danno, non potendo il Giudice ritener provata la sussistenza di una perdita patrimoniale eccedente quest’ultimo e, dunque, la sussistenza di un danno da lucro cessante, come tale risarcibile.

Con la medesima decisione, inoltre, la Corte ha precisato il proprio pensiero in tema di “spese di assistenza stragiudiziale”, che il danneggiato può reclamare a titolo di danno emergente, solo a condizione che ricorrano due ben precise condizioni.

Anzitutto, “l'opera prestata sia connotata da una qualche utilità ai fini della definizione del contenzioso (ad esempio, assicurando una tutela più rapida con la risoluzione di problemi tecnici complessi)”, ciò che nel caso specifico non era stato perché “l'intervento stragiudiziale dell'agenzia di infortunistica” era in realtà superfluo, “dacchè non in grado di porre in essere attività di qualche rilievo per gestire un contenzioso ancorato a complessi accertamenti di responsabilità medica”, come aveva affermato il Giudice d’appello.

Secondariamente, il danneggiato deve provare “l'esborso a tale titolo, essendo la relativa pretesa risarcitoria soggetta agli oneri di domanda, allegazione e prova secondo le ordinarie scansioni processuali (cfr. Cass., Sez. U, 10/07/2017, n. 16990; Cass. 13/04/2017, n. 9548 Cass. 13/03/2017, n. 6422)”.

In difetto di prova di questo ulteriore presupposto, e atteso quanto osservato riguardo al primo, la Corte ha, dunque, rigettato l’impugnazione che il danneggiato aveva proposto a questo riguardo.

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